Nel
vedere i mezzi che la scienza e la tecnica hanno messo a
disposizione degli uomini e come tali mezzi vengono impegnati
dagli - uomini di buona volontà - per compiere il bene, è con
orgoglio sereno che guardo la Misericordia di oggi non senza
lasciarmi andare al ricordo dell'ieri, quando compiere un
"servizio di carità" voleva dire compiere sacrifici anche
e soprattutto fisici, non indifferenti. Molte volte voleva dire
camminare per ore e ore sotto la pioggia, magari di notte, col
vento, sui sentieri delle nostre colline o della piana e raggiungere
modeste case sparse dove la miseria era la calcina robusta che
teneva insieme chissà da quanti secoli, quei muri sbreccati. Più
sacrificio allora compiere quella umile nostra azione di cristiana
carità? Non lo so. Certo è che fare del bene, quello da fratello a
fratello che il Cristo per primo ci ha insegnato, non è mai stato
né mai sarà né semplice né facile. E mentre questi pensieri
compagnia ad un vecchio giornante, il ricordo di tanti
"fratelli" della Misericordia che hanno compiuto il loro
dovere di cristiani e di misericordiosi mi fa rivedere volti e
immagini di giorni tanto lontani. era il 28 novembre 1916. Un mio
fratello era militare nella zona di guerra. quella sera giunse a
Prato un altro treno dal fronte, carico di militari e feriti. Dalla
Misericordia partirono tre "brigate" con altrettanti carri
lettiga per trasportare i poveri soldati ai vari ospedali e luoghi
di ricovero cittadini. Pioveva forte ed il vento non era da meno Una
chiamata urgente chiedeva la nostra umile opera di soccorso per
trasportare all'ospedale dalla "Casina rossa" un'ammalata
di polmonite. L'uomo che era venuto a chiamarci avrebbe fatto da
guida alla "brigata". Alle 20,30 muniti di torce a vento e
intabarrati nei mantelli nove fratelli della Misericordia partirono
da via dell'Oche per la Calvana. Era talmente una serata "da
lupi" che nonostante la guida fosse pratica del posto per ben
due volte fu smarrita la strada e come se ciò non bastasse ad un
tratto un turbine di vento spense tutte le torce. Riunitisi a
cerchio e facendo scudo con i loro mantelli i "fratelli"
riaccesero le torce e finalmente giunsero alla "Casina
rossa". Dopo una brevissima sosta nel canto del fuoco, presero
l'ammalata l'adagiarono su cataletto e postolo "a spalla"
ripartirono alla volta dell'ospedale. Quando tornarono alla
Misericordia erano le due di notte. Il Provveditore dell'emergenza
Giovanni Guarducci, intitolò un suo articolo su un Annuario
dell'Istituzione "Se parlassero gli scartafacci". Se
parlassero gli scartafacci chissà quante di queste diuturne e
sconosciute imprese potrebbero raccontarci e raccontare ai giovani
d'oggi! Essi potrebbero conoscere figure che per la loro genuina
semplicità e ferma fede cristiana hanno da insegnare tante cose
agli odierni umanitari statuali.
Questo episodio l'ho ritrovato da me narrato in una lettera del 29
novembre 1916 che avevo inviato a mio fratello al fronte. Di questo
casuale ritrovamento ne avevo parlato al compianto confratello ed
amico cav. Brunellesco Pecchioli che si era ripromesso di darmi
altri particolari su questo "servizio". Era ormai l'unico
superstite dei nove "fratelli" che vi presero parte. Ma
anch'egli è ormai stato repentinamente chiamato ed ora è con gli
altri nove confratelli e con tutti i Misericordiosi della Compagnia
del Pellegrino e della Misericordia che per i loro meriti avranno
certamente ottenuto misericordia. Con questo episodio intendo
porgere a tutti i "fratelli" scomparsi un reverente
omaggio e ricordo ed in particolare a quell'amico che fu il cavalier
capoguardia emerito Brunellesco Pecchioli.
Un
Giornante del Giovedì |